Draganea – Un Viaggio insieme a Dragan Travica/Parte2

«Lieto l’eroe dell’innocente vento,
la vela dispiegò. Quindi al timone
sedendo, il corso dirigea con arte
né gli cadea su le palpebre il sonno,
mentre attento le Pleiadi mirava…»
(Omero, Odissea, V, 345-349)

Il nostro viaggio nel mondo di Dragan Travica era iniziato in terra danese, alla vigilia degli Europei: molta strada è stata percorsa, la via del ritorno a casa è stata lastricata d’argento. Ora è tempo di partire per un viaggio più lungo e, mentre il nostro protagonista è approdato in una terra da scoprire, noi ci apprestiamo a “dispiegare la vela” e a cavalcare i flutti della Draganea (se Omero dovesse rigirarsi nella tomba è attivo uno Sportello Reclami dall’Ade). Quindi… «Musa, quell’uom di multiforme ingegno dimmi». Ma in questo luogo sarà Dragan a raccontare se stesso.

Il porto da cui prendiamo il mare è quello di Copenhagen, con una nuova medaglia al collo (conquistata «mettendo in campo e in spogliatoio qualcosa in più delle schiacciate e dei muri») e l’«appagante consapevolezza» di aver «dato tutto quello che i nostri corpi e le nostre anime potevano dare in quel momento». L’analessi dell’estate azzurra inizia da Mauro Berruto («Non ho mai incontrato qualcuno che credesse così tanto in me e io credo molto nei suoi modi di gestire un gruppo») e da come si dovrebbe costruire una squadra: «attraverso le sconfitte, i momenti difficili, i litigi, le discussioni; attraverso tutte le cose negative, che hanno un denominatore comune: avere fiducia nelle qualità sia umane che tecniche di un giocatore. Un allenatore deve avere il coraggio di rischiare di perdere un set per lasciare che la squadra viva quell’esperienza. Un giocatore deve mangiare tanta polvere per crescere: se gioca male deve vivere quei momenti per poter crescere». Di polvere si è riempita anche la sua bocca. «Le mie più grandi soddisfazioni sportive le ho vissute dopo aver superato un momento difficilissimo perché capivo dove dovevo lavorare per migliorare».
Questione di allenamento, consuetudine e mentalità: la ricetta vincente sta nel lavorare con costanza. «Voglio giocare e farò il massimo perché sono io a volerlo, non perché gli altri vogliono o non vogliono che io giochi». La determinazione non gli è mai mancata, unita alla consapevolezza nelle proprie capacità. Fin da quando, nel 2009, disse che a Londra a palleggiare ci sarebbe stato lui: «Fui criticato perché dire quelle cose era presunzione. Io dico che è credere nei propri mezzi ed è la cosa più bella che ci sia. Bisogna sentirsi forti, senza essere arroganti: se sento di poter fare molto meglio vivo con le mie convinzioni, che mi fanno diventare più bravo di ieri». La storia insegna che tutte le grandi personalità hanno consapevolezza di quello che hanno fatto e di quello che rappresentano: e tutti i grandi dall’esterno sembrano arroganti.
Una consapevolezza che si paga con la severità nei confronti di se stesso.
«Sono un perfezionista di natura e spesso è stata un’arma a doppio taglio: mi ha fatto arrivare a risultati buoni, ma mi ha sempre fatto vivere male le cose che non mi piacevano completamente. Quando i miei allenatori o i miei compagni di squadra mi dicevano che quello che facevo in allenamento andava bene io mi incazzavo perché secondo me avrei potuto fare meglio. Adesso sono molto esigente, ma sono anche un po’ meno cattivo con me stesso quando sbaglio». Resettare l’errore e pensare alla palla successiva: una dinamica che ha fatto maturare Dragan in campo. «Spesso in allenamento ero indisciplinato, però estroverso, e mi veniva tutto; invece c’erano degli allenamenti in cui se non riuscivo a fare quello che volevo mi incupivo: l’allenatore non mi poteva dire niente, il mio giocatore non mi poteva dire niente, ero una bestia, tutto pancia. Adesso mi rendo conto che ho un ruolo molto più mentale che tecnico».

Dragan rimane sempre uno dei giocatori più istintivi in campo, ma ha imparato a disciplinare l’istinto per incanalarne la forza nel suo modo di giocare. «Quando do meno peso all’errore palleggio meglio, sono molto più libero, più leggero, le mie mani sono più fluide, il movimento è più veloce, meno falloso; invece quando penso alla palla precedente il corpo si irrigidisce. Ho speso tante energie per studiarmi a livello comportamentale e per studiare i movimenti del mio corpo». Per capire che la perfezione non esiste e che il difetto offre molteplici sfaccettature. E per arrivare all’essenza del palleggio: «Quando alzo una palla può essere molto precisa, ma non avere niente dentro che il mio attaccante possa utilizzare; magari in una palla un po’ meno precisa ci sono molti elementi – la fiducia, la stima, la grinta, il massimo impegno nell’aver dato quella palla in quel momento lì – che hanno un sacco di valenza all’interno di un gruppo».

Lasciata la terra danese, il futuro offre nuove avventure al palleggiatore della Nazionale. Perché questo viaggio è «un continente ancora da scoprire, un’occasione che deve arrivare» (la nostra sirena è Alessandra Amoroso). Il nostro viaggio nella Draganea prosegue.

Foto ©E.Zanutto

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